Pigri, impauriti e lamentosi

GLI ASSETATI DI GIUSTIZIA LATITANTI, NON POTRANNO PIU' LAMENTARSI

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Testo di Davide Stasi, tratto da: “www.stalkersaraitu.com”.

L’inizio di questo articolo sarà un puzzle di citazioni.

“Mi scrive che la bambina la vuole solo lei e che se no sarà il giudice a decidere […] non voglio finire nella strada e senza bambina solo perché lei ha l’avvocato gratis e io mi rovino”.

“Mia figlia di 5 anni non mi rivolge più neanche un saluto nelle video chiamate. Come mi devo comportare?”.

“Secondo voi è normale portare avanti una storia di urla continue, minacce, offese e questo se si sta zitti e non si risponde perché se si risponde si arriva anche alle mani?! Poi ci prendi le botte e si fa male da sola e devi pure sopportare le minacce. Se anche ci fosse una lite normale quello che succede è che per settimane non ti rivolge la parola o te la rivolge per mandarti a quel paese. Lascia che tutto in casa vada in malora incrociando le braccia e non facendo più nulla in casa e oltretutto non contribuisce alle spese di casa pur lavorando. Se poi torna un po’ di quiete in casa e disgraziatamente ti paga una bolletta o fa una spesa te lo rinfaccia e lo usa come minaccia”.

“Nessun Avvocato anche il Migliore potrà mai fare qualcosa se non Vuole la tua EX”.

“Quando nei giorni previsti dal giudice i vostri figli sono ammalati, la madre vi fa recuperare la giornata o il pomeriggio perduto?”.

Cioè la cosa che non capirò mai: “lei si fa amante. Maltratta i miei figli e me denunce su di lei per ospedale bambini lesioni a me… chiuso rapporto perché mi ha fatto cornuto. Gli danno casa figli soldi e altro… e devo accettare che porta i miei figli pure con lui a casa. E io basta pure che faccio na telefonata e m’arrestano… popolo qualcosa non quadra, se lo facevo io stessa cosa… mi levavano tutto e allora qualcosa non quadra”.

“Questa è solo una microscopica rassegna delle esperienze umane dolorose, dei dubbi e dei tormenti che uomini e padri affidano ai social network, su pagine dedicate. A scorrere e classificare tutti i messaggi, sui forum, su Facebook, su Twitter, si potrebbe costruire un’enciclopedia della frustrazione e dell’ingiustizia che intere legioni sono costrette a subire nel nostro paese. Il filo rosso che lega tutti questi messaggi è la rassegnazione. A parlare e scrivere sono persone vinte dagli eventi. E che tali si ritengono destinate ad essere, per sempre”.

Da questa convinzione nasce il tono comune a tutti gli interventi: “un tono lamentoso, piagnucoloso, passivo, tutt’altro che virile. Qualcuno ogni tanto ci prova a suonare la carica, chiamando gli altri -guerrieri- o qualcosa di simile, ottenendo alla fine un effetto straniante, con cui quei vinti appaiono ancora più vinti. C’è di tutto in quei messaggi. Richieste di consigli, ricerche di lavoro o di casa o di qualche dritta sull’avvocato migliore. Poi sfoghi, tanti sfoghi”.

E tante foto: “padri coi figli, felici, e la frase usuale, pochi momenti di gioia, tra poco tornano dalla madre, li rivedrò tra dieci giorni, dieci giorni di martirio. Martiri, sì. Quei martiri con lo sguardo patetico rivolto verso il cielo, come se ne vedono spesso nei dipinti antichi. Maciullati, sventrati, arsi vivi, ma con quello sguardo triste e rassegnato verso l’alto, verso una speranza ultraterrena che li ripaghi della sofferenza. Ma è una posa, solo una posa. Si affidano alla giustizia divina o del destino perché, anzitutto, hanno paura. Paura di assumere iniziative più vere, più concrete, più forti. Ma sono anche pigri. Il loro stato sofferente gli dà un’identità, un senso, una riconoscibilità. Ci si sono avvezzati ed è difficile abbandonare la cara vecchia e cullante sofferenza per una battaglia che non si sa bene come potrebbe finire. Meglio immersi nella calda brodaglia di rabbia e frustrazione che affrontare, nudi come sono, un campo di battaglia”.

Ed è così che viene da chiedersi: “è la loro sofferenza reale, profonda? L’essere umano è in grado di sostenere alti livelli di patimento, ma dopo un po’ l’istinto di ribellarvisi e uscirne è naturale. Questa assenza di spirito battagliero pone la domanda se ci sia dietro un reale disagio o se non sia solo una posa. A meno che l’involuzione generale non abbia cambiato in essi la natura umana, ma mi pare improbabile. E c’è, come se non bastasse, un ulteriore lato negativo in questa passività piagnucolante. Coloro o ciò che li ha ridotti in quella condizione traggono il massimo vantaggio dalla loro debolezza, così reale ed esibita. Ridotti in quello stato, sono inermi e incapaci di unirsi realmente per una battaglia comune, che non sia un mero incoraggiamento a parole. Da soli o tutti insieme, con questi presupposti, sono un ventre molle, dove gli interessi economici e politici che mangiano sulla sofferenza loro e dei loro figli penetrano come un coltello caldo nel burro. La loro ignavia, il loro essere irresoluti è, dunque, anche autolesionista. Perché questo mio giudizio così severo? Perché è tanto, davvero tanto che li osservo. Percepisco bene cosa provino dentro, e ho un quadro chiarissimo delle condizioni che li hanno costretti a quella prostrazione. Per questo, quando mi è capitata per le mani l’occasione di promuovere un’iniziativa quale il Patto per l’equità e la giustizia, ho avuto motivo di essere ottimista”.

Oltre ai contenuti, sicuramente risolutivi per tutti i problemi che schiacciano questi uomini, il metodo con cui veniva presentato tagliava di netto tutti i motivi classici di divisione: “le diverse ideologie, i protagonismi individuali, la necessità di riconoscere un leader o un’organizzazione di riferimento. Non c’era nulla di tutto questo. C’era solo una chiara individuazione dei problemi e l’elencazione precisa delle soluzioni da adottare. Punto. La politica… quella cosa a cui questi individui hanno da sempre avuto la tendenza di rivolgersi a mani unite, supplicanti… per favore, tenete conto dei nostri problemi… siamo tanti, tantissimi. Qualcuno vuole impetrare a destra, qualcuno a sinistra, ci si divide e la politica ignora”.

Nossignori, dice il Patto: “non sono loro forti e noi deboli. Non siamo noi a dover supplicare e loro a concedere. E’ l’esatto contrario. Tutti noi, più i nostri cari, abbiamo il nostro voto in mano. Un’arma potentissima in questo momento. Ammucchiamo tutti i nostri voti sul tavolo. Devono essere tanti, come tanti siamo noi. Poi chiamiamo i politici. Li vedrete sbavare su ciò che abbiamo messo sul tavolo, allungheranno subito le mani ma… prima dovranno apporre la loro firma sui contenuti del patto. Allora avranno i voti. Un meccanismo semplice, diabolico, che non comporta alcun costo, ma solo lo sforzo di leggere il patto, rinunciare al proprio voto di appartenenza, e diffonderlo il più possibile in rete o col passaparola reale. Un meccanismo che scatta solo se dietro il pezzo di carta che detta le condizioni si riunisce una massa critica di persone. Altrimenti non vale nulla. A due mesi dalle elezioni è difficile? Ci sono video idioti su YouTube che raccolgono migliaia di visualizzazioni in due giorni. Una questione che ha dietro di sé ingiustizie e sofferenze inenarrabili non puo’ avere una performance simile? Non ci credo. Credo piuttosto che la difficoltà sia legata o, come detto, alla paura, alla pigrizia, alli’gnavia degli interessati, o forse a una difficoltà a diffondere il messaggio. Sono poco propenso a quest’ultima ipotesi perché il battage è stato molto, qualcuno ci ha messo su anche dei soldi per delle inserzioni sui social, quindi non è un problema legato alla viralità del messaggio”.

“Il problema è l’incapacità di riconoscere la soluzione. La volontà di volerla sostenere. Il desiderio di uscire dal brodo di sofferenza (anche se lo stesso uscirne è fonte di sofferenza) per ingaggiare una battaglia che, è evidente, è la prima sensata ed efficace da anni. Il problema è che è più semplice schiaffare un like al post del compagno di sventura, piagnucolare la propria frustrazione su un messaggio di pochi caratteri, chiedere consigli alla community sapendo che tanto poi non si otterrà nulla di concreto, piuttosto che alzare il culo e metterci la faccia, le mani, il cuore, la testa. Il patto, che tutti chiamano -petizione- ma che non è una petizione, bensì una proposta di equo scambio tra una potenziale moltitudine e una minoranza al comando, è disponibile da quindici giorni. Mentre scrivo ha raggiunto le 610 firme, contro i teorici sei milioni, almeno, di figli e nipoti privati della figura paterna, dei nonni e degli zii paterni. Significa che ha aderito, ad oggi, lo 0,01% dei potenziali firmatari, a un ritmo di 40 firme al giorno. Significa che se nei prossimi dieci giorni il ritmo delle sottoscrizioni giornaliere non centuplica (almeno), l’iniziativa è già fallita”.

Niente di male, intendiamoci: “le iniziative hanno successo o falliscono, è sempre tutto nel conto. Ma a fronte del fallimento bisogna sempre aprire delle riflessioni. Le mie le anticipo già qui. Se questa iniziativa fallisce, pur con i suoi caratteri universali e, per la prima volta, priva di qualunque elemento divisivo, allora non si può che concludere che i sei milioni di padri, con zii e nonni al seguito, privati dei loro figli e nipoti non soffrono veramente. Non vogliono una soluzione. Gli sta bene così, per il loro presente, e non gliene importa nulla che in futuro altri possano passare lo stesso calvario. Significa che non c’è in loro alcuna sensibilità per il giusto e l’equo, ma gli è sufficiente trovare una valvola di sfogo pubblica per sopportare la frustrazione, gli bastano un paio di like, dati o ricevuti, per avere un po’ di sollievo. Vorrà dire che la loro sofferenza è diventata la loro identità, e non vogliono rinunciarvi”.

“Ben inteso, anche tutto questo può essere accettabile. Lo spirito umano si abitua a tutto. Il vero bug di tutto questo, semmai, è che non è la loro sofferenza che vuole venire interrotta, con quella proposta. Ma quella presente e futura di milioni di figli e nipoti. E’ per loro, e solo per loro, che è stata concepita. La triste conclusione, se non ci sarà una svolta nel sostegno al patto, è che pur di mantenere la propria identità sofferente, queste legioni di martiri sono disposti a sacrificare i propri figli e quelli futuri di altri, condannandoli alla privazione di un genitore, con tutte le violenze che il sistema vi connette”.

“La loro battaglia per il bene dei propri figli sarebbe dunque un mucchio di chiacchiere. Occorrerebbe prenderne atto. Io dovrei prenderne atto per primo. E sarebbe enormemente doloroso e deludente. E mi consolerà poco, se mai, poter dire a tutti… l’occasione l’avete avuta e non l’avete colta, ora non potete più lamentarvi. Non è il tipo di successo che speravo e ancora spero per l’iniziativa di cui mi sono fatto convinto promotore”.