Quasi 200 apparizioni tra film e sceneggiati, da “Il buco” di Jacques Becker (1960) fino agli ultimi successi come Vescovo di Terence Hill nella fiction “Don Matteo”. Philippe Leroy, l’aristocratico prestato al cinema, è morto ieri sera a Roma dopo una lunga malattia

AVEVA 93 ANNI E L'ITALIA ERA LA SUA SECONDA CASA

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Testo…, tratto da… www.rainews.it!

Quasi 200 apparizioni tra film e sceneggiati, da “Il buco” di Jacques Becker (1960) fino agli ultimi successi come Vescovo di Terence Hill nella fiction “Don Matteo”. Philippe Leroy, l’aristocratico prestato al cinema, è morto ieri sera a Roma dopo una lunga malattia. Aveva 93 anni e l’Italia era la sua seconda casa.

Nato a Parigi il 15 ottobre del 1930, Philippe Leroy-Beaulieu era erede di una famiglia aristocratica con sei generazioni di soldati e ambasciatori alle spalle. Sdegnoso del suo titolo di marchese, a 17 anni si imbarcò come mozzo su una nave per l’America alla stregua di un personaggio di Joseph Conrad. Tornato in Francia, entrò nella Legione Straniera e andò a combattere in Indocina ed Algeria, arruolato come paracadutista. Dall’Algeria tornò pluridecorato, ma decise di abbandonare la carriera militare e trovare un lavoro. Uno qualsiasi, anche in un circo (lavorava con i cavalli) o come navigatore di imbarcazioni off-shore.

Un parente gli aprì la strada nel cinema, la carriera d’attore iniziò con il regista Jacques Becker: colpito dal suo fisico asciutto, dall’aria di chi ha visto il pericolo da vicino e conosce le armi, lo arruolò nel cast del film “Il buco” (1960) nella parte di un detenuto che tenta la fuga dal carcere, un criminale, ma umano e pieno di dignità.

Seguirono altre interpretazioni in Francia, ma, soprattutto, dal 1961 prese a lavorare prevalentemente in Italia, dove partecipò subito a due film che esemplificano i suoi principali ruoli futuri: “Caccia all’uomo” di Riccardo Freda, in cui interpreta un bandito ricercato e poi catturato dalla polizia; “Leoni al sole” di Vittorio Caprioli, liberamente ispirato al romanzo “Ferito a morte” di Raffaele La Capria. Da allora, sia nei film commerciali sia in quelli d’autore, e anche nelle numerose produzioni televisive (cui prese parte fin dai primi anni Settanta), Leroy alternò parti di cattivo puro con altre di aristocratico decadente.

Nel corso degli anni Novanta, oltre a lavorare in televisione, ha interpretato piccoli ruoli in film come “Nikita” (1990) di Luc Besson, “Il ritorno di Casanova” (1991) di Edouard Niermans e “Mario e il mago” (1993) di Klaus Maria Brandauer. Nel 1999 ha partecipato alla commedia “Il pesce innamorato” di Leonardo Pieraccioni e nel 2001 al drammatico “Vajont – La diga del disonore” di Renzo Martinelli.

La televisione fu la seconda svolta
La televisione, strumento di consenso popolare, gli offrì nel 1971 la seconda svolta nella carriera: lo convocò Renato Castellani e gli cucì addosso i panni di Leonardo da Vinci nello sceneggiato omonimo. Il suo temperamento si ricongiunse alla fine, 5 anni dopo, con la professione… nei panni del flemmatico portoghese Yanez de Gomera nel “Sandokan” di Sergio Sollima divenne una vera star e scolpì un’incarnazione salgariana indimenticabile, amata da 30 milioni di spettatori a puntata. Benché si fosse misurato con il teatro, benché avesse recitato anche per Godard, Comencini, Luigi Magni, Jacques Deray, Dario Argento, Luc Besson, benché avesse vestito da protagonista i panni di preti (Ignazio de Loyola in “State buoni se potete”), ufficiali (“R.A.S.” di Yves Boisset), ex-nazisti (“Portiere di notte” di Liliana Cavani), fu proprio la tv a offrirgli i ruoli migliori. Giusto ricordarlo almeno in “Quo vadis?”, “Il generale”, “Elisa di Rivombrosa”, “L’ispettore Coliandro” e perfino “I Cesaroni”.

Il grande pubblico lo ricorda anche per il ruolo del vescovo nella fiction “Don Matteo” al fianco di Terence Hill, sette episodi in onda su Rai1 nella stagione 2008-2009.